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7.11.06

FRANCESCA LA VACCA ..DELLA VALLE

Sulle struggenti note di “Libertango”, “la Cumparsita”, “A media luz” sabato 1 dicembre alle ore 21 sarà messa i scena, nella splendida cornice del Terminal Crociere di Bari, l’anteprima dello spettacolo “Amar’Tango”. Si tratta di un musical moderno ed innovativo, “un esperimento insolito: un trailer teatrale dal vivo che sarà in tourné in Australia a partire dalla primavera 2008, per poi tornare in Italia e iniziare le repliche nei maggiori teatri italiani”, spiega Francesca Della Valle, ideatrice e autrice del soggetto teatrale.
Sul palcoscenico sei tangheros dell’Escuela di Tango del coreografo Jimmy Mongelli (www.tangoholiday.it) daranno vita allo spettacolo che, attraverso i dialoghi di una coppia in crisi ed in attesa dell’udienza di divorzio, ripercorrerà i momenti salienti di un grande amore, indissolubilmente legato alla travagliata storia argentina degli ultimi decenni: emigrazione, peronismo, guer¬ra, dittatura, desaparecidos, terribile crisi economica. Il tutto legato dal fil rouge del tango che pervade lo spettacolo rappresentando l’anima e la speranza dei protagonisti e sottolineando tutti i passaggi drammatici del musical.



Protagonisti della piece teatrale, diretta dal regista Roberto Girometti, past president dell’associazione italiana del cinema, e con le musiche ed arrangiamenti del noto maestro Enzo Campagnoli, saranno Francesca Della Valle e Cesare Pasimeni. Lui, nei panni di un professore di diritto. Lei, una giornalista. Entrambi intel¬lettuali progressisti, si sono incontrati all’uni¬versità nei primi anni ’70, ai tempi eroici delle contestazioni post Peron. “Hanno vissuto insieme, innamorandosi, vivendo all’unisono dapprima il periodo delle repressioni studentesche e poi quello drammatico della dittatura dei colonnelli – spiega Francesca della Valle, Sulla scena i due, delusi ed amareggiati (siamo nell’82 alla vigilia della sciagurata presidenza Menem), si confronta¬no con l’Argentina contemporanea: crisi economica galoppante, crisi dei valori, società in sfacelo”. L’anteprima dello spettacolo pronto per “girare” l’Australia sarà messo in scena prima della partenza proprio a Bari. “Abbiamo scelto la bella struttura di Manlio Guadagnuolo, amministratore delegato del Bari Porto Mediterraneo, perché sta diventando sempre più teatro di promozione dell’arte e dello spettacolo nella capoluogo pugliese”, tiene a sottolineare Della Valle, che nel mondo dello spettacolo ha già accumulato varie esperienze nel campo della recitazione, sia teatrale che cinematografica (film “Le bande”), nel campo della conduzione televisiva (accanto a Mario Merola, in “La piazzetta di Merola”), nel campo del canto e della scrittura.

“Aspettando Amar’Tango” è uno spettacolo completo e divertente che ripropone il tango nelle sue mille sfaccettature: dalla danza dei classici (tra cui “Libertango”, “la Cumparsita”, “A media luz”) alle canzoni più struggenti del repertorio latino-americano: “Jelosia”, “Besame mucho”, “Tu me acostumbraste”.

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Parole, parole, parole... di Francesca della Valle
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Il mio precedente articolo sui modi di dire sembra aver avuto un certo successo,
perché sono stata subissata di richieste: ecco la prima: “Per un punto Martin perse
la cappa...” una frase celebre che si presta a molte interpretazioni. Ho indagato
e qualcuno si è anche avventurato a scomodare Martin Lutero che, come tutti
sanno, affisse sulla porta della cattedrale di Wittemberg le sue celebri tesi in 95
“punti”. Ma il padre della Riforma perse la cappa certamente per tutti i punti, non
per uno solo. E allora? E allora la frase si riferisce ad un certo monaco Martino
che non fu nominato priore dal Papa (e perse la cappa, cioè il mantello con cappuccio
indossato dai priori) per lo scandalo creato dal suo sbaglio nel mettere
un punto: doveva infatti far incidere sulla porta del convento questa frase: “porta
patens esto, nulli claudatur honesto”. Cioè: “la porta aperta sia; a nessuna persona
onesta si chiuda”. Nel trascriverla, mise per errore un punto dopo “nulli”: “porta
patens est nulli. Claudatur honesto”, cioè: la porta aperta sia a nessuno. Si chiuda in faccia alla persona onesta.
Oggi questa espressione è diventata proverbiale e si usa a proposito di chi stava
per raggiungere quello che desiderava e, a causa di un piccolo errore (che tuttavia
produce gravi conseguenze), ha perso l’occasione di raggiungere il suo obiettivo.
A proposito, molti scrivono tale lemma con due “b”: obbiettivo. Ebbene, anche se
è brutto, debbo ammettere che è corretto.
La forma più “elegante”, ma io direi più vicina all’origine colta della parola,
è quella con una sola b (latino obiectum. Pertanto, anche “obiettare”).
Lo stesso dicasi per qual è; qual era che i sostenitori dell’elisione scrivono con l’apostrofo: sono corretti entrambe le forme.
Ma torniamo a Martino e ricordiamo che un analogo gioco verbale fu celebre
nell’antichità in relazione ai responsi della Sibilla: “Ibis, redibis, non morieris in bello” (partirai tornerai, non morirai in guerra).
Spostando la virgola dopo “non” la profezia esprime esattamente il suo contrario
ed il responso è tutt’altro che OK.
OK?! Sembra sia il lemma più usato nel mondo, ma il suo acronimo è oscuro...
Qual’è (o qual è) la sua origine? Ci sono molte teorie ma la più accreditata è la
seguente: durante la Guerra di secessione americana, nei bollettini dal fronte,
sarebbe stata usata l’abbreviazione 0K, cioè “zero (che si può anche pronunciare
“O”) killed”, “zero uccisi”. Una buona notizia, dunque, che ha dato origine al
termine. Veniamo ora alle richieste dei lettori: il detto “Non c’è trippa per gatti” da dove viene? Lo ha spiegato di recente Walter Veltroni: “Fu Ernesto Nathan, leggendario sindaco di Roma nel 1907, ad annunciare così i primi tagli di bilancio, quando, alle prese con la necessità di risparmiare, cancellò con un tratto di penna la somma che il Comune stanziava per sfamare i felini che albergavano
tra i ruderi di Largo Argentina”.
A proposito di Largo Argentina, sapete perché se qualcuno non paga il biglietto
“fa il portoghese”? Perché nel secolo XVIII l’ambasciata del Portogallo a Roma, per festeggiare un avvenimento, aveva indetto una recita al teatro Argentina per la quale non erano stati distribuiti i biglietti d’invito; per entrare bastava presentarsi come “portoghesi”. E perché se la cameriera che va a farci la spesa intasca il resto “fa la cresta”? Perché anticamente si chiamava agresto un condimento asprigno che si ricavava dall’uva poco matura che, quando era colta dai contadini per far l’agresto, dava luogo anche alla “distrazione” di un po’ di uva buona che avrebbero invece dovuto portare al padrone; e si diceva far l’agresto per indicare questa piccola ruberia.
In seguito, far l’agresto è diventato far la cresta.
Infine mi è stato chiesto da cosa deriva la locuzione “far da capro espiatorio” per
indicare una persona a cui si addossano tutte le colpe, anche quelle non sue. Gli
Ebrei avevano anticamente una strana usanza (ma molto pratica ed utile!). Mosè aveva ordinato che ogni anno si celebrasse l’espiazione dei peccati. Nel giorno designato, il sommo sacerdote prendeva due capri: il primo veniva sgozzato e il sacerdote lo caricava, simbolicamente, di tutti i peccati suoi e del popolo; l’altro veniva mandato via perché si disperdesse nel deserto e non tornasse mai più. Il primo
si chiamava capro espiatorio, il secondo capro emissario. Come si vede fin da
molto tempo prima dell’invenzione della confessione l’umanità aveva edcogitato
sagaci espedienti per mettersi in pace con la propria coscienza! E a proposito
di ovini e sacrifici sapete da cosa deriva la “standing ovation” con cui acclamiamo
i nostri idoli? Dalla romanissima “Ovatio”, ovazione, una forma minore di trionfo,
nella quale il condottiero vincitore veniva onorato col sacrificio di molte pecore

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Giacomo Leopardi scriveva nel 1820 a Pietro Giordani:
“Io per me, sapendo che la chiarezza è il primo debito dello scrittore, non ho mai lodato l’avarizia de’ segni, e vedo che spesse volte una sola virgola ben messa, dà luce a tutt’un periodo. Oltre che il tedio e la stanchezza del povero lettore che si sfiata a ogni pagina, quando anche non penasse a capire, nuoce ai più begli effetti di qualunque scrittura”.

Dunque, oltre alla regola aurea che ci impone periodi brevi e compiuti, teniamo sempre presente quella che ci ricorda di seminare “cum grano salis” i segni appropriati per comunicare pause ed espressione al linguaggio scritto.
Ma anche la punteggiatura ha le sue regole e le sue precedenze, per lo più ignorate da giornalisti e scrittori estemporanei.

Ad esempio, eventuali punti esclamativi o interrogativi vanno posti prima del segno di chiusura di parentesi, virgolette o trattino lungo (Tra noi tutto è finito! - urlò sbattendo la porta). Gli altri segni vanno posti dopo la parentesi chiusa: “sarò sincero (se avrete il coraggio di ribattere), ma non vi piacerà!”

Il punto finale della frase va all’interno delle virgolette o delle parentesi se il periodo inizia all’interno delle virgolette o delle parentesi; va all’esterno se la frase tra parentesi o tra virgolette è racchiusa in (o introdotta da) una frase principale. Fanno eccezione il punto esclamativo e interrogativo, che chiudono sempre la frase interrogativa o esclamativa.

“Paola – disse Sandra – vieni qui!”; “Paola”, disse Sandra, “vieni qui!”
Sandra disse: “Paola, vieni qui!”. Paola disse: “Sandra, ti devo parlare”.
Sandra rispose:”Proprio adesso?”. “Proprio adesso?” rispose Sandra.
– Non vedi che sto uscendo? – aggiunse stizzita.

(Punti esclamativi e interrogativi vanno sempre all’interno della frase, e quindi delle virgolette o della lineetta. Chiaro il meccanismo?)

Sembra esserci tra i segni una sorta di gerarchia, al vertice della quale sta il serioso e assertivo “punto”, detto anche “punto fermo”. Segue la “virgola”, femmina gentile che ci consente, con un’opportuna pausa, di fare un bel respiro... e magari di riflettere! (A proposito: prima della congiunzione “ma” la virgola si mette sempre!) “Parentesi” e “trattini” ci aiutano a costruire meglio il testo, a chiarire meglio il nostro pensiero, a citare quello altrui in maniera corretta e ben distinta dal nostro. Come in ogni comunità c’è, infine, un segno discriminato e relegato nella casta più infima: si tratta del povero “punto e virgola”, ignorato dai più e detestato da molti. Considerato “né carne, né pesce” non è più adatto a un’epoca di certezze, a tempi pragmatici come i nostri.Parliamo un po’ di “piuttosto che”, di congiuntivi, di ausiliari (non quelli del traffico...), di participi e di “quant’altro”..........

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Avete notato che da un po’ di tempo siamo entrati in una nuova era?
Mi riferisco a quella del “piuttosto che”, recentemente subentrata alla precedente era del: “nella misura in cui”.
Non che quest’ultimo orrendo fraseggio sia in definitiva obsolescenza, anzi sopravvive floridamente, sempre in compagnia del “discorso” che viene comunque “portato avanti” (a questo proposito mi viene in mente che il sarto, di un mio amico al suo primo abito su misura, si informò se il “fastidio” lo portasse a destra o a sinistra. Pensare oggi al “portarlo avanti” in un certo qual modo è confortante!).
Tornando al “piuttosto che”, ormai indispensabile nel frasario “colto” di ogni buon mezzobusto televisivo, vorremmo offrire un modesto contributo informando costoro che, se proprio lo debbono usare, sarebbe bene che ciò sia fatto nella giusta direzione, giacché ci stanno da tempo fracassando ciò che noi signore NON portiamo “avanti” e anche quelle che talune di noi fortunatamente portano“sotto”.
Infatti è invalsa la moda di assegnare a questa locuzione il significato di “OPPURE”. In realtà in italiano “piuttosto che” significa “INVECE”.
Applicatevi, per pietà delle nostre orecchie. E... dimenticavo: SOMARI! I verbi “credere”, “sperare” ed in genere tutti quelli cosiddetti dubitativi reggono il CONGIUNTIVO (per capire cosa sia suggerisco la consultazione di un libro, peraltro ormai rarissimo: la “Grammatica Italiana”).
A tal proposito vorrei “spezzare una lancia” (sapete perché si dice così? Ve lo racconto nel prossimo numero... insieme a qualche chicca sulla punteggiatura) a favore dell’uso corretto del verbo “ausiliare”, questo sconosciuto.
La parola ausiliare deriva dal latino auxilium che significa “aiuto”. In italiano, come nel latino e nelle altre lingue romanze, ci sono solo due ausiliari: AVERE e ESSERE. Questi “ausiliari” sono verbi che “aiutano” altri verbi nei tempi composti.
Tutti i verbi usati transitivamente richiedono l’ausiliare AVERE nei tempi composti, che non richiede l’accordo in numero e in genere.
Molti verbi intransitivi, specialmente i verbi di movimento che indicano uno spostamento (andare, ritornare, venire, arrivare, cadere, partire, ecc.), tutti i verbi riflessivi, i verbi impersonali e quelli passivi richiedono ESSERE come ausiliare nei tempi composti e richiedono l’accordo in numero e in genere. Dunque: “Sono statA al cinema e lì ho vistO Giovanna.