cliccate sulla barra musicale:

2.11.06

DONATA FEROLDI

Cari amici, illustri signori dell’Accademia!
Ve ne siete andati tutti… non vedo nessuno, a parte la cara amica che con recidivo buon cuore mi ha invitata e un altro personaggio giù in fondo, di cui non distinguo i contorni, eppure la sua mi pare una sagoma familiare. Non dirò che siete Nessuno, quantunque la mia monocularità potrei esser scambiata per l’orbo Polifemo. Bando alle ciance.
Vi ho offesi? Forse, eppure non era mia intenzione. Sono qui nel vostro fortino, sulla soglia di un deserto da cui potrebbero sopraggiungere, chissà, nuovi tartari … In vostra assenza vi penso e ritorno a questo gioco di specchi e di maschere in cui, in veste di scimmia, faccio la parte di Pietro (il Rosso). A Bagdad cadono bombe in questo momento, e io sto nel silenzio, ho bisogno di silenzio e mi difendo, con le luci basse e quella piccola animazione del silenzio che può essere un sottofondo di musica jazz e sento le parole piovere sulla pagina insensibilmente e così povere, fragili, così delicate e insostenibili… anche riscrivere – imitare – come tradurre è un modo per difendersi e nascondersi in bella vista. Ma ora… ora c’è bisogno di un po’ di dolcezza e guardare le cose con occhi più quieti e abbandonare la bella lingua sapiente e difesa, la lingua smagliante e sguainata come una spada. Non sapendo parlare di condizioni geopolitiche, parlo di noi e torno qui, sono tornata qui. In questo rifugio. Pace.
C on questa parola finisce una storia e da questa parola può tutto iniziare, quel che sta fuori dalla pagina: lo so, sembra un paradosso. Si fa scudo col corpo, col povero corpo, si combatte ancora col corpo, il povero corpo, si muore col corpo, anzi no, dal corpo.
La differenza di genere che ci accomuna in specie è salda e innegabile: e entrambi, cari amici, ci nascondiamo dietro qualcosa e in questo momento sembra così risibile il povero corpo di pagine pixel parole. Torniamo indietro. Un passo indietro.
Non sembra avere molto senso, ora, disquisire delle nostre questioni, ma tutto questo, tutto quanto poteva accadere anche se ancora non era accaduto e forse, dico forse, avrebbe potuto essere fermato, avrebbe dovuto già stare dentro le nostre parole, interposte o dirette, avrebbe dovuto già abitare qui. Avrebbe dovuto esserci posto qui dentro, un posto preparato e disposto con cura, per questa amarezza, lutto e sconfitta e questa eterna e ammantata di coraggio bassezza – dov’è il nostro onore? – e per un silenzio urlante che scardini le parole di complicità, un urlo-silenzio più forte della chiacchiera e della piccola mercanteria e libidine catastrofila, per questo, signori, non sono con voi che, nell’assenza, guardate, chissà, un notiziario e rivedete per l’ennesima volta i missili piovere sulla città bagnata dal Tigri, culla di civiltà. La nostra: nulla di ciò che è umano può esserci estraneo, nessuna civiltà non ci appartiene, ha detto uno scrittore che amo e che si è battuto strenuamente contro la pena di morte, coi suoi poveri grandi mezzi, parole e disegni, coi suoi umani strumenti.
Non avevo neppure voglia di parlare, o cantare, o urlare, ieri al presidio di pace: stare col corpo, stare lì, in silenzio. Questo, davanti ai signori del mondo. Che sono signori perché pensano che tutto sia infinitamente afferrabile e spostabile e manipolabile, come il posacenere su questo tavolo da una pila di libri a un’altra e anche i libri si possono muovere, da un ripiano all’altro.
Il titolo della mia conferenza di oggi è: under milk wood, sotto il bosco di latte, e ancora una volta ripete un titolo altrui, non perché la scrittura possa essere ormai solo riscrittura – o forse questo è il mio limite personale e professionale di zelig e camaleonte – ma perché avverto il bisogno di stare nel solco, e approfondirlo: in quel bosco, non tutte le strade sono state percorse, quel bosco l’abbiamo amato e lo amiamo in tanti. Ma prima vorrei parlare di frontiera, anzi di “fronte”. La frontiera, umanamente, è un limite, percettivo, pratico, esperienziale, prima che politico o nazionale.
Esiste anzitutto un territorio dell’io la cui frontiera non è marcata in modo evidente, non ha traccia: il suo limite si perde e confonde, è sfumato. Forse abbiamo un perenne bisogno di segnarlo e dire no a qualcosa, non farlo entrare, lasciarlo fuori. Certo c’è un fronte anche qui – il fronte è la frontiera di guerra, la linea su cui si svolge la battaglia – e qui la linea è fatta di comunicazioni: immagini e parole. E pare che addirittura le azioni siano in parte condizionate dalle loro comunicazioni: prima micro-ondata di bombardamenti chirurgici, solo tre edifici che bruciano, alte pire, nella notte irachena. È questo che vogliamo vedere e sapere che è vero laggiù, e il volto incerto, quasi ectoplasmatico, e stanco e sconfitto dell’inviata speciale nella luce di una lampada incertamente tenuta alta sulla destra, fuori dal nostro campo visivo, a illuminarle il volto nel gesto di tenere la cornetta nera obsoleta di un telefono che sembra a muro, nero familiare obsoleto, appoggiata alla guancia, come in una conversazione qualsiasi, forse un po’ più concitata e drammatica. Le parole spezzate, che arrivano a scatti, a ondate, differite dall’immagine: la sua bocca si muove e diverso è ciò che sentiamo. Non sincronizzate immagini e parole, silenzi e parole. Seconda ondata, 320 missili hanno detto, 1200, qualcuno può deve averli contati. La città tutta a funghi e colonne di fumo, la città tutta a incendi con le sue strade ancora illuminate dai lampioni, una città come questa in cui siamo: chissà se era così la colonna che guidava gli ebrei nell’esodo, imponente, divina. O poca cosa erano le pire coi bagliori di scudi nella guerra di Troia visti una volta viaggiando di notte. Qualcuno le ha raccontate.
Parlo con questa amica, e con la sagoma solitaria appoggiata giù in fondo allo stipite della porta di questa sala affrescata e ufficiale, perché quest’amica è anche ebrea e conosce i suoi esodi, in lingue e territori diversi, e così il bosco di latte, che è un bosco di morti che sognano e parlano e ricordano, che vorrei convocare per noi, perché il latte è primario come l’acqua, lo dedico a lei e a suo figlio.
La prima ondata l’abbiamo sopportata, forse addirittura pensando che a qualcosa era servita tanta protesta: a essere un po’ più precisi. Come se i corpi per strada e nelle piazze, i corpi colorati, avessero cambiato la balistica se non la retorica della guerra. Una colonna avanza nel deserto iracheno da sud. Non si vede. Poche immagini di carri armati, verdi su verde, immagini notturne a raggi infrarossi o infraverdi: segni – significanti – per dire “c’è una colonna in marcia nel deserto”. Niente uomini. Una colonna di mezzi blindati. Avatar cingolati dei corpi. Poi gli elicotteri e gli aerei, bombardieri, ricognitori, B 52 ecc., che cadono da soli, hanno guasti inspiegabili. La cosa ci lascia perplessi… No. Significato: non c’è battaglia. Il “nemico” – uso questa parola come potrebbero usarla loro, i generali – non reagisce neppure, non c’è, non si vede, è impotente. Altra notizia: si arrende. Colonne di uomini in marcia nel deserto diurno, in fila indiana con le braccia alzate appoggiate sopra la testa, da quanto preparate immagini. Significato: non è una guerra. È un’avanzata quasi trionfale. Loro sono profughi, come dire orfani. E poi, prima del primo attacco, la fuga di notizie sulla sparizione o defezione o altro di Tarek Aziz. Ricompare. E poi le canzoni trasmesse dalla televisione ufficiale del paese aggredito, così è stato detto. È un dato di fatto: è stato aggredito. E poi facce lunghe a Bruxelles, l’Europa spaccata: quale Europa? Questo è un fronte, anzi, più fronti.
E poi i paesi minaccianti veto all’Onu – veto che non hanno nemmeno avuto bisogno di porre, ma solo di sventolare ventilare – che sono tutti, guardacaso, beneficiari di concessioni petrolifere con “il regime del rais”, ci hanno detto, ha detto qualcuno. Rais, che parola orrenda. Proliferazione di etichette. E poi i missili intelligenti – non è nemmeno più il caso di ironizzare, l’hanno già fatto tutti, uno oggi in manifestazione a Milano a detto: “i missili sono intelligenti, è chi li lancia che è un pirla” – i missili intelligenti che sbagliano bersaglio e colpiscono un’area petrolifera iraniana: errore? terrore? Noi siamo qui per guardare. Siamo qui a guardare. E loro lo sanno. Come se i missili di questa guerra mediatica – che è stata detta virtuale, ma non è la parola giusta, perché la comunicazione è realtà, non virtualità, penetra in noi, colonizza le nostre menti o almeno ci prova, resistere – come se i missili di questa guerra mediatica ci passassero a razzo sopra le teste. Come a volte gli aerei, i Mig, delle basi americane in Italia, un sibilo, un frastuono, e funivie che cadono. E poi l’accusa di anti-americanismo brandita come una clava da chi, certo, è anti-qualcosa, anti qualcos’altro: non si può? È fuori luogo? È “di parte”? è ideologico? È qualunquistico? (tutto viene brandito, non si fa che brandire)
O lo è solo in caso di anti-americanismo e non altro? E lo siamo, anti-americani, se questo significa essere contro l’amministrazione Bush che nega personalità giuridica alle nazioni, a tutte le nazioni del mondo, se non hanno, e non ce l’hanno, pari capacità di affermare con la forza questa loro personalità. Naufragio dell’Onu, dell’idea stessa che regge l’esistenza dell’Onu. E poi le belle attrici statunitensi esibite a mo’ di soprammobili pensanti e politicamente corretti nei più morbosi salotti televisivi – la televisione si guarda in salotto ergo si fa in salotto – stando bene attenti a interromperle sul vivo, quando potrebbero davvero rivelare il loro pensiero e con questo un minimo, o un massimo, di complessità che non fa comodo alla chiacchiera blabla: l’interruzione, lo zapping preventivo con la scusa del collegamento imperdibile, sono la nuova frontiera della censura, della propaganda, fanno montare la polemica quando è il caso, se è il caso, fanno salire la tensione, la suspence, blandiscono il potente, ridicolizzano l’invitato-fenomeno da baraccone – lo zoo umano, vedete, ci sono anche i pigmei e la donna-cannone… Lo zapping preventivo, il montaggio: con la scusa della diretta, dell’impellenza, della fretta, dell’improrogabilità del momento, del tempo che precipita. Il tempo scorre sempre uguale, in sé, se esiste: non per noi, non per gli esseri umani.
Il montaggio, lo zapping, il ritmo è il significato, la propaganda, il fronte. Purtroppo, anche per chi non lo pratica in maniera deliberata, anche per chi non lo agisce ma ne è agito. E tuttavia, bisogna dirlo, la malafede trionfa. “Cosa dovremmo fare? è la legge dell’informazione: siamo le sue vittime”: i suoi servi. E i sorrisetti. E i toni più pacati del solito: per non urtare la sensibilità o suscettibilità del pubblico, dei telespettatori, mai delle persone, degli individui, dei vivi.
Noi parliamo e voi ci vedete, facciamoci vedere belli, decenti. Se ci riusciamo in questo frangente, abbiamo svoltato… Che cosa è cambiato, chiedono. È cambiato tutto, si risponde qua e là. No, non tutto: lo stato d’animo. E poi, paradossalmente o non tanto, in questa composta bagarre propagandistico-informativa, in questo bazar fornitissimo di poche cose che sembrano molte, ce ne sono anche molte che non si vedono e, più del solito, davanti agli occhi di tutti, si approfondiscono le stesse notizie che non venivano date e che ora vengono date per scontate. Si rifà la storia occultata. È tutto un tessile viavai per orchestrare il consenso o il disorientamento o il senso di impotenza. Se ci sentiamo inutili non manifesteremo, non faremo pesare la nostra presenza, la nostra esistenza: non sentiamoci inutili. Proviamo a esserci, intanto. Notoriamente, in casi di guerra, la propaganda la fanno sempre gli altri, il nemico: noi (gli alleati) diciamo la verità. Diciamo anche che bisogna prendere le cose con le pinze, con beneficio di inventario: ma cosa dobbiamo prendere con beneficio di inventario? Guardiamo la scena, lo schermo, guardiamo il montaggio, guardiamo il dito per una volta, e non la luna: la finzione sta lì, la simulazione o dissimulazione sta lì.
E il dito si nasconde. Ma arriva qualcos’altro, arrivano i volti, ancora una volta un po’ ectoplasmatici, dei prigionieri: arriva la loro paura. Hanno enormi cornee bianche intorno alle pupille, e guardano di lato mentre rispondono con la faccia di fronte: cosa vedono? Cosa stanno guardando? Sfidano, a modo loro, fingendo di non capire le domande, quelli che li interrogano. Ma non bisogna dirlo, forse. Comunque li staranno già picchiando, staranno continuando a picchiarli. Potessero i nostri pensieri alleviare il dolore. Hanno anche tanta paura, tremano. Queste persone entrate nell’esercito per uno stipendio decente, per avere le spese sanitarie pagate: queste retrovie catturate. Questi occhi che ci chiedono aiuto ma noi non siamo lì ad aiutarli: possiamo solo guardarli. Una volta un grande scrittore ha scritto – è stato prima della televisione, del cinema e quasi contemporaneamente alla nascita della fotografia: “Chi assiste al massacro, assiste il massacro”. È così. Poi abbiamo visto anche i primi morti: non volevamo. Abbiamo acceso in quel momento la televisione che avevamo deciso di tenere disciplinata – arginare la colonizzazione del cuore, della testa, della vita – per continuare a essere uomini e donne, non appendici catodiche, non “pubblico”, per continuare a sentire e a reagire. Eccoli, buttati lì, malmessi. Morti. E poi a pioggia, dopo quel primo crollo dello schermo posto davanti alla realtà di carneficina della guerra, a pioggia: morti, bombe su mercati rionali, case popolari abbattute, battaglie violentissime, resistenza. E la sabbia che sale, la tempesta dal deserto, come se il deserto volesse vendicarsi di quel nome di dodici anni fa: “Desert Storm”. La cosa non impedisce ai missili eccetera. La sabbia risale come erano risalite le ceneri nelle parole dello scrittore e poeta Tahar Ben Jelloun. Io mi fermo. So che altri stanno parlando, scrivendo e soprattutto sentendo. Ad alcuni di loro, tra quelli che non sono qui ad assistere a questa stupida conferenza, mi sento particolarmente vicina. Ad alcuni di loro sono molto grata: per le cose che hanno detto, per come hanno saputo stare, con dignità e umanità, in questa situazione difficile. C’è una guerra, ed è qui, e la nostra non ha missili e morti, ma ha una posta altissima. La posta di questa guerra è la coscienza. La coscienza non è una: è la possibilità della pluralità nel rispetto. Il nemico di questa coscienza è la semplificazione: l’invasore, il colonizzatore. Quello che dice di volerci liberare o di starci liberando. Da cosa? Dai sentimenti umani? Dai cattivi pensieri? Dalla capacità di distinguere, di sottilizzare? soprattutto in situazioni come queste, è importantissimo non perdere la capacità di sottilizzare. Io sto qui e tra un po’ tornerò a casa, col pensiero che è vicino a tanti, col pensiero che il modo migliore per uccidere due volte qualcuno, per ferirlo, martoriarlo due volte, è – con la propria bella faccia di esperti chiamati lì apposta – non fare le distinzioni che sono nel cuore di ognuno e per cui non c’è bisogno di alcuna patente di esperto ma solo di questa esperienza che è la vita. Che la mente sia nutrita dal cuore e non obnubilata da un flusso continuo di emozioni mantenuto in circolo per muovere noi e le nostre vite come dischi sul ghiaccio in una partita di hockey (senza sforzo alcuno, senza alcuna resistenza): anche la commozione, l’esclusiva reazione di commozione, può essere una riserva, un campo di concentramento in cui mettere gli uomini che pensano e sentono, sentono e pensano, e provano pietà e agiscono, perché la pietà non è un sentimento ma una postura, un’azione, un modo di rispondere nei fatti e coi fatti a quello che accade. Ciascuno con i propri mezzi. Pietà per i vivi e per i morti. Pietà per chi è invaso e per chi è stato mandato a invadere. Per chi non sopporta questo dolore e diventa pazzo. Io sono solo una scimmia. Accade che abbia imparato a scrivere. Non vivo solo di questo. Pace.


Giovedì 27 Marzo 2003