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21.1.09

una stanza tutta per te!

Lanterne a mare


Nel riposo dei gabbiani
che fiancheggiano il cammino della nave
coi loro sogni sull'acqua
c'era uno squarcio di lucciole
vissute un solo istante
che dal mistero del mondo
urtava sui miei occhi intenti.



di Gloria Gaetano







Mrs Dolloway
Gran parte del romanzo Mrs Dolloway consiste
nei ricordi di tutti i personaggi, anche di
quelli minori.
E questo calarsi nella coscienza dei soggetti
e assumerne tutti i punti di vista è una delle
innovazioni più interessanti della narrazione
di WIRGINIA WOOLF . ntra nel romanzo anche la
vita frettolosa della città:l'autobus,
l'orologio del Big Ben, l'aereo in cielo,
la signora seduta sulla panchina e la vita
dei passanti.
Nel libro la trama dei fatti,inconsistente, è
sostituita dallo scorrere del 'flusso di coscienza
' dei personaggi. E' la novità introdotta dalla
grande scrittrice nello stile e nella narrazione:
il flusso di coscienza. Infatti il narratore passa
in secondo piano: quasi tutto quello che è detto
è un riflesso della coscienza delle persone.
Si Aprono , dunque,scenari diversi, ambienti nuovi,
ogni volta che un personaggio entra nel discorso
narrativo:giardini, parchi, stanze, altri universi
e spazi. E' il 'monologo interiore', già altre
volte usato da scrittori come Dickens, Goethe,
Balzac, ma in maniera diversa,occasionale.
Le riflessioni personali erano sempre precedute
da un 'sembrava che', 'sentiva'. Un momento molto
bello e suggestivo della giornata della signora
Dolloway è quando si ritira nella sua camera
monacale. Nella solitudine riemergono ricordi
d'infanzia e della sua giovinezza, della sua
amica Sally e di Peter Walsh, che ha amato
e non ha voluto sposare.
Sono momenti della giornata di una 'tranquilla
signora inglese'.

Le parole fragili
domenica 21 settembre 2008, 18.14.25 |
gloriapoetry@yahoo.it (rosa gialla)

La parola può salvare una persona oppure perderla.
Al di là dei contenuti, sono i modi con cui la parola è pronunciata
(i gesti e il silenzio, lo sguardo e le espressioni del volto),
a indicarne la connotazione ostile, amica, affettuosa, aggressiva, ansiosa.
La parola è sempre fragile o arrischiata, è accattivante e seducente, è nemica o solidale, è. Ma l'altro potrebbe avere le antenne sensibilissime nel cogliere il senso nascosto,fluttuante e impalpabile, delle parole.
E ogni parola può essere quella decisiva: la parola che crea fiducia o fa nascere un contatto emozionale, cioè quella che incrina la solitudine e libera gli aquiloni nel vento, ma la parola anche che accresce, con le sue risonanze, la solitudine e l'ansia, le inquietudini del cuore.
La parola è dialogo, ma anche silenzio:nasce dal silenzio e finisce nel silenzio in una reciprocità incalcolabile e friabile. Le parole, labili tracce dell'inconoscibile ed effimere immagini del reale, metafore di un mondo possibile, si moltiplicano alla ricerca di definizioni probabili del dialogo e del silenzio, dell'apertura agli altri e della solitudine, della contemplazione e dell'azione; e non sempre riescono in questo intento.
Gloria Gaetano







Bruciano
le ore
della notte
allo stoppino
del tempo

e una plenitudine corposa
veglia sulle mura di pomice
della città vecchia
innalzata ai canali del firmamento.

La stanchezza abbraccia
la valle con liquido mare
che tutto chiama a sè.
Spesso la vita si schiude a sorpresa
dalle siepi più stranite
con squarci che superano le aurore della mente.
E allora dalla terra nuda
s'alza un frumento glabro
che gli uomini stacciano alle reste
per farne pane sacro
alla mensa del Dio.


Ho cercato l'amicizia,
l'amore, la gioia.

Ho perso giornate
intere sui bordi
del mare
e dell'acqua verde,
trovando solitudine
e persone, giocando un pò.

Ricordi il mio sorriso?
e ne ho trovate tante su quel limite,
confine di vita e di intuizione,
di piacere e di piccole verità.
Ho incontrato te,
un giorno che tentavi
le stesse avventure
della vita,
con dolcezza,
con un pò di sofferenza.
Poi uomini che mi hanno
promesso mondi,
case, giornate
cariche d'azzurro,
tramonti rossi senza fine.
Ma io amavo la notte, la notte
dei miei pensieri e anche della festa,
del divertimento, della dimenticanza.
La notte in cui si poteva amare a lungo,
incontrarsi, per poi accettare
naturalmente il mattino.


La musica
penetra
la notte;

la poesia
la scava,
e ci
restituisce
intatti
al sole.


Mille promesse, mille piccoli inganni,
neanche voluti,quelli che volevano
starmi accanto,non hanno saputo.

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
Volevano il possesso dell'acqua e della luna..
hanno tentato di lacerare qualcosa di me,
che sono acqua e luna, e non mi potevano ferire,
perchè l'acqua, come la luna non si scalfiscono.
Le piccole crudeltà, le piccole piaghe
si rimarginano subito.
Torna il mattino, torna il rosso del'estate,
e le ferite sono scomparse.
Anche le parole dure,
la dura polemos dei rapporti,
il volerti diversa,
la lotta per il possesso,
non mi hanno lacerato.

C'era sempre l'estate, il mare,
un amore tutto mio, ai bordi del mare.
Li ho delusi forse, avevo l'aria sognante
delle persone che nuotano,
che s'immergono e risalgono
senza paura.
E così tutti mi ricordano,
nello svagato sapore delle acque,
nelle nascoste gioie della notte.
So che i ricordi erano piacevoli
e davano sapore alle loro vite.
Come il sole, sotto cui
stendevo il mio corpo,
si può amare una persona così
e si può dimenticarla.

Nessuno ha distrutto veramente
le mie intuizioni
di luce, acqua e notte.
Nessuno, la mia forza.
lLa mia ostinazione
nel non perdermi,
lo ha impedito.
Finchè, all'improvviso,
il dolore,inimmaginabile,
all'inizio poco convinto,
e poi le lacrime
che inondavano il mio corpo.
E non c'era consolazione,
nè appoggio,nè aiuto.
La lotta continuava,
questa volta contro
ferite ben diverse,
che cercavo di medicare
con le illusioni.

L'amore più grande,
l'unico, forse,
mi aveva stretto
in una morsa
senza liberazione.
L'amore per una figlia
è il più travolgente,
il più disperante.
La malattia aveva occupato
la mia vita,smascherato
gli inganni e le illusioni,
mi aveva sbattuto contro un muro..
e non ci fu più altro.
Solo un'amica, mia figlia,
solo una vicinanza,
una fratellanza con lei.
Ho tentato con altri
uno strano mélange
di amore e amicizia.
Ho parlato, ho pianto,
convinta che la persona,
quella che sembrava più vera,
mi ascoltasse.
Ho parlato, scritto,
forse anche pregato.
Sì, mi vergogno, ho pregato.
La mia forza,la mia polemos
svanite.
Rimanevano paure,speranze
in una sola persona,
perchè proprio quella,
voglia di essere aiutata
a riprendere la vita,
quella che mi piaceva,
non un'altra?

Anche con altri
ho pianto e parlato:
la noia sui loro volti,
e soprattutto il timore
di essere coinvolti..
e quindi il silenzio,
la solitudine.
L'amore, l'amicizia era tutta
per quella piccola lei,
impaurita, raggelata
non so da quale
senso della vita.

Lui,stanco di ascoltare,
aggressivo, preso da altre cose.

Rimproveri.. rimproveri..
perchè non sono più "quella" donna.
Non sono più molto brava,
sono stupida, lenta, casalinga,
e noiosa.

E soprattutto
si può provare paura.
Si può rompere un equilibrio,
io so quanto fragile.

Tutti devono essere
lasciati in pace:
la malattia assimilata
allo scorrere del quotidiano.

La follia trova un suo piccolo
equilibrio, diventa quasi dolce,
accettabile, ma io so quanto dolore
c'è sotto, quanto fuoco cova,
come sarà dura quando esploderà tutto,
da questo equilibrio di farmaci,
di piccole simulazioni.

E tu, con le tue fughe,
con le orecchie piene di cera,
per non udire più
il canto delle sirene,
tu, così dolce, così attento,
non sai più dire parole
di conforto e amicizia,
non sai ascoltare il dolore.

Lo so, dovevo tacere
con te e con tutti.
Non sarei stata così sola.
E so che adesso sono condannata
al silenzio, al dolore chiuso,
che fa fatica a trovare
la via delle lacrime.

So che devo tacere.

E avere la mia unica amica,
io che divento come lei,
piano, senza accorgermene.

Io che non devo più parlare,
per non disturbare
la pace tua e degli altri.

Ma io, ormai, non so più tacere,
adesso il silenzio
è una crudele condanna....


poesia sofferta di Gloria Gaetano



La comunita' di Monticello provincia di Caserta....

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La messa da requiem.
Quel piccolo bastardo ridicolo mette in scena la vetta, l'apice.
Mi sento come Salieri.
Io la vivo quella cosa, ce l'ho nell'anima e me la tengo per me, perché non ho le armi, non ho gli strumenti per esprimerla, ma lui si.
Le note si rincorrono eteree, rotonde, perfette.

Disegnano e descrivono alla perfezione lo stupore e la paura e la grandezza di un momento supremo. Dopo una vita passata a divertirsi come uno scemo, tra scherzetti e risatine, all’improvviso si mette a fare i conti con la vita e lo fa con tutta la spietatezza di una visione ultima e totale. Dietro alla musica deve esserci per forza qualcosa. Mi rifiuto di credere che sia qualcosa che vive di vita propria e arrivi dal profondo dell’universo. C’è per forza la mediazione umana.

Certe cose
ti tolgono
il divertimento.
Se la mia libertà prendesse la forma dell’affermazione dei miei desideri tutto diventerebbe troppo difficile, perché oggi i miei desideri sono solo fastidiose forme che prende la vita per tenermi viva.
Mi commuove un po’ l’impegno che ci mette. Quasi che gli importasse veramente di me e non fosse un dovere d’ufficio. Io mi sento al di là. Io, lei, l’eterno, l’eternità, il coraggio, essere altrove. Qualcosa mi ha proiettato in un altro mondo, la tempesta perfetta senza un alito di vento, la mia vita some sassi tettonici che compongono il mondo.
Resto ferma, seduta. Il mondo gira intorno come impazzito e io resto al centro della tempesta, dove regna una calma innaturale, un morte a rate, sospesa, un giudizio in prima istanza senza appello né tanto meno cassazione.

Ma io guardo, mi guardo intorno come se dovesse esserci una risposta, con quello sguardo un po’ scanzonato e un po’ disarmato e disarmante che ha chi non si arrende pur senza sapere quale sia la guerra e chi l’abbia dichiarata. Aspetto gli amici e parlo e rido e li faccio ridere. Metto in scena la normalità e faccio capolavori, faccio in modo che tutto sembri davvero normale. Non è facile e io lo faccio bene, ma bene assai. Parlo anche della malattia che talvolta mi attanaglia perché non sembri che sto facendo finta che non esista e qui si tocca il virtuosismo.
Fortuna che c’è la notte. La notte spazza via tutto e permette a Mozart di suonare ancora e non solo quella sinfonia pazzesca, ma anche quelle del periodo in cui si può essere, giustamente, stupidamente, leggeri.

Il mio amore per la vita può diventare purissimo, libero da ogni utilitarismo. La vita non vuole niente da me e io da lei. Ci amiamo così, da lontano, ognuno con l’aria di poterne fare a meno, cosa che appaga abbastanza la mia megalomania.
Mi accorgo di parlare spesso di questo ma è una delle cose più interessanti che mi sia mai capitata.
Gloria
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Dove l’anima incanta la solitudine
Virginia Woolf: Una stanza tutta per sè ...di Elisabetta Chicco Vitzizza
Io credo che per un artista la solitudine sia una condizione in qualche modo nativa, connaturata allo stesso modo di essere artisti.
L’artista, archetipo junghiano del Fanciullo Eterno, sa, isolandosi nell’interiorità, assorto nel suo gioco con la serietà e l’allegria che appartengono ai bambini, ritrovare nel gran tesoro sepolto dell’infanzia il segreto della creatività. Quando ogni nuova sensazione, ogni esperienza agisce con innumerevoli suggestioni, incanti, emozioni.
Forse, all’inizio, nessuno ha una stanza tutta per sé, quella stanza di cui parlava Virginia Woolf, e forse, all’inizio, il bambino neppure ne ha bisogno, tanto vive beatamente immerso nel mondo delle proprie fantasie e dei propri pensieri, alla confluenza di sogno e veglia, di immaginazione e realtà. Poi, mano a mano che la normatività del mondo adulto gli si fa sentire, questa magica disposizione iniziale svanisce. Molti la perdono per sempre, scivolano nella noia e nell’appiattimento, a cui credono di sfuggire fuggendo la solitudine. Qualcuno, invece, riesce, proprio coltivando quella solitudine, a rivivere vaghi frammenti della propria infanzia, ad attingere da quel remoto passato una rinnovata ricchezza, ritrovandone la capacità mitopoietica. Questi è l’artista, lo scrittore, il sognatore, o più semplicemente chi mantiene il contatto con se stesso e con la propria vita interiore.

La vita interiore è il nucleo più intimo dell’esistenza, dove si è se stessi e si gioca con la propria immaginazione o si riflette. Così la solitudine dell’artista si popola di fantasmi: ricordi, scavo di sé, elaborazione di forme.

La solitudine è preziosa per l’artista. Non è mai un vuoto, un’assenza. Così come la stanza, lo studio, per l’artista o per lo scrittore, non è mai una prigione da cui si anela fuggire, ma il luogo della libertà e dell’appartenenza a se stessi. Per poter scrivere, per potere realizzare qualcosa, diceva Simone De Beauvoir, proprio a proposito del saggio di Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, bisogna innanzitutto appartenersi, possedere la propria anima.

Per cui, metaforicamente, avere una stanza tutta per sé vuol dire anche avere il riconoscimento della propria collocazione artistica nel mondo.

Questa libertà, questo appartenersi, ci spiega nel suo saggio la Woolf, fino a tempi recenti sono stati negati alle donne. Perché le donne sono state riconosciute solo come madri, sorelle, mogli, figlie e in questi ruoli non hanno avuto né tempo né spazio per ritrovarsi in solitudine con se stesse. Sono sempre vissute con i familiari, più o meno a loro disposizione, e i loro spazi sono stati la cucina o la stanza comune del soggiorno.

Persino quando contribuivano all’economia familiare con un lavoro, il preferito era per forza di cose quello di sarta, di tessitrice, di maglierista, di ricamatrice: un lavoro che si potesse svolgere in casa, un occhio al ricamo o alla macchina da cucire, l’altro ai bambini o alla pentola.

E anche quando disponevano di tempo, e di servitù, non era concepibile che si isolassero per dedicarsi a una propria personale attività, a una propria passione, se non attraverso un vero atto di ribellione, come fece Emily Dickinson, chiudendosi a vita nella propria stanza da letto per concedersi intimità e concentrazione: “L’Anima sceglie la sua compagnia / poi richiude la porta”. La stanza dell’anima, la stanza del sé, non può che essere una stanza solitaria, isolata, segreta, un luogo intimo dove l’anima incanta la solitudine.

Le signore, come la madre stessa di Virginia e come tante protagoniste delle sue opere, pensiamo alla Clarissa di Mrs Dalloway o alla signora Ramsay di Gita al faro, trascorrevano la maggior parte delle loro giornate nel salotto o nella sala da pranzo, dove presiedevano alla vita familiare o svolgevano i loro compiti di padrone di casa ricevendo ospiti e dando direttive alla servitù. Se uscivano di casa era solo per fare commissioni o per attività benefiche. Il loro compito era accudire gli altri.
Perciò molte donne di talento, nei secoli andati, erano allevate per condurre vite inutili, sprecando il loro talento. Isolate in casa nelle loro vite oscure, che si svolgevano parallele alla vita maschile, energica e fattiva nel mondo, ma mai sole con se stesse, mai libere di raccogliersi e creare senza essere interrotte.
Le eccezioni come Jane Austen riuscivano a ritagliarsi piccoli spazi: per esempio, un angolo del tavolo della sala da pranzo, dove scrivere. Sempre attenta però a nascondere carta e penna non appena nella stanza entrava qualcuno. Non era per le qualità artistiche che una donna veniva apprezzata, ma per la totale abnegazione alla famiglia. Talento femminile per eccellenza, nella società vittoriana in cui fu cresciuta ancora Virginia Woolf, era la direzione impeccabile del rituale pomeridiano del tè.
Lo studio, la stanza per leggere, scrivere, meditare, appartandosi dagli altri, dai familiari prima di tutto, era un privilegio riservato agli uomini, e come tale costituiva un segno di sapere, ma anche di potere: pensiamo allo studiolo del duca di Montefeltro a Urbino. Nella famiglia vittoriana in cui crebbe Virginia era dallo studio che l’uomo di casa, il padrone, nella fattispecie il temuto e viziato Leslie Stephen, controllava l’operato delle donne, perché in quella società era all’uomo che toccava educare e controllare la donna –moglie, figlia, domestica. A Vanessa, la figlia maggiore, toccava invece ( dopo la morte della madre e della sorellastra Stella) sottostare alla terribile resa dei conti settimanale, presentando al controllo dell’iroso, avaro e dispotico padre il quaderno delle spese e dell’amministrazione domestica.

La conquista di uno spazio privato per le donne è stata lunga e difficile. Angelo del focolare o regina della casa nella retorica virtuosa o mondana di un tempo, ma nella realtà confinata piuttosto in cucina o in salotto, la donna, fino a tempi non lontani, non ha potuto disporre che in modo limitato dello spazio domestico: questo apparteneva assai più all’uomo o alla famiglia che a lei. Era il padre o il marito, era il capofamiglia, come veniva chiamato, a esercitare davvero una specie di monarchia domestica.

Per questo, scriveva la Woolf in Una stanza tutta per sé, era necessario che una donna potesse disporre, oltre che di uno spazio privato, di una rendita che, dandole indipendenza economica, la mettesse davvero in grado di compiere le proprie scelte, come quella di scrivere. A 19 anni Virginia esprimeva così il proprio ideale di libertà: “L’unica cosa che conti,al mondo, è la musica,-la musica, i libri e un paio di quadri. Fonderò una comunità in cui non ci si sposerà, a meno che non ci si innamori di una sinfonia di Beethoven. Assolutamente nulla di umano, tranne ciò che si comunica attraverso l’Arte, null’altro che pace e infinita meditazione”. Dedicarsi all’arte invece che alla caccia del marito: poche donne fino ad anni recenti hanno osato farlo.
Insieme alla sorella Vanessa di qualche anno più grande, Virginia trascorreva in un tetro salottino della casa paterna di Hyde Park Gate, pomeriggi operosi: Vanessa disegnava o dipingeva all’acquerello, Virginia scriveva il suo diario o leggeva ad alta voce. Entrambe avrebbero tenuto fede alle loro vocazioni artistiche. Ma per Virginia le cose furono più facili, perché apparteneva a una famiglia di letterati, in cui la scrittura era tenuta in grande considerazione, mentre l’arte era poco capita e per nulla praticata. Virginia era la preferita del padre, lo scrittore Leslie Stephen, che riconosceva tra loro una naturale affinità intellettuale e la lasciava libera di leggere i libri della sua fornitissima biblioteca. Virginia ottenne anche un’insegnante privata di greco e di latino, ma non quell’istruzione di alto livello e formalizzata che era stata garantita ai fratelli maschi, perché era radicato anche in un uomo colto e per certi aspetti anticonformista come Leslie Stephen il pregiudizio sulla incompatibilità di fondo tra femminilità ed elevate doti intellettuali: a una donna Leslie Stephen richiedeva di essere istruita, piacente e devota al marito, alla casa e ai figli come lo era stata l’amatissima moglie Julia. Una raffinata educazione intellettuale di livello universitario sarebbe stata del tutto superflua (considerati anche i costi, e Leslie Stephen era assai poco propenso alle spese che considerava inutili o eccessive). Virginia nutrì sempre una profonda invidia e rabbia per il privilegio che era stato concesso ai fratelli e a lei negato.
Nella società vittoriana in cui è cresciuta Virginia Woolf, le giovani donne borghesi recluse in casa vedevano la vita dalla finestra, come le sorelle Pargiter (nel romanzo-saggio La famiglia Pargiter, che la Woolf poi trasfuse e rielaborò ne Gli anni). Ragazze che osservano (o spiano) dalla finestra del loro salotto la vita dei vicini, il passare in strada di una carrozza: modesti diversivi alla monotonia delle loro esistenze quietamente domestiche e limitate negli orizzonti.

Virginia perdette la madre quando era bambina, quella madre che per lei aveva rappresentato l’ordine, la sicurezza, la stabilità in mezzo al caos della vita, al tumulto delle emozioni, ai discordanti aspetti dell’esperienza. Il marito fu per Virginia un sostituto materno, in un matrimonio che, almeno da parte di lei, non conobbe la passione. Come una madre Leonard la proteggeva, organizzava le sue giornate per fare in modo che lei riposasse quanto era necessario, la nutriva quando era malata e rifiutava il cibo, vegliava sulla sua salute, perché non ci fossero ricadute nella malattia. Virginia andava soggetta a crisi di malinconia e in diversi momenti sprofondò nella depressione, soffrì di allucinazioni, tentò di uccidersi. Fu sempre Leonard a salvarla, finchè lei glielo permise. Il matrimonio con Leonard fu un baluardo eretto a protezione e difesa dalle difficoltà del vivere e dall’instabilità psichica che la minava dall’adolescenza. La vita da sola era insicurezza e caos, quella con Leonard soprattutto protezione: “A volte confronto la sicurezza di fondo della mia vita, pur in mezzo a tante tempeste, con la precedente condizione di abbandono al caso…”
L’angolo davanti al caminetto dove i coniugi Woolf siedono a leggere, a parlare e a prendere il tè celebra la tranquillità di cui Virginia ha bisogno: “Ho Leonard e ci sono i libri, e la nostra vita insieme”. Anche i rituali sono delle protezioni dalle tempeste del mondo, dal disordine esistenziale, dal rischio sempre incombente della dispersione di sé. Uno dei piccoli rituali, a cui Virginia teneva molto, era bere una tazza di cioccolata in cucina prima di andare a dormire. Immagino che possa essere sua la mano di donna che gira il cucchiaino nella tazza al di qua della finestra, cercando nella ripetizione di quel piccolo gesto la forza di uno scongiuro, protetta dall’intimità della stanza.
In concomitanza con la pubblicazione del saggio Una stanza tutta per sé, nel 1929, Virginia aggiunse alle altre stanze dell’amata casa di campagna (Monk’s House a Rodmell nel Sussex) la sua camera da letto. Doveva essere in realtà il suo studio, “la stanza tutta per sé” che si era regalata con i proventi ricavati dal grande successo di Orlando.
E’ uno spazio luminoso con due finestre e una porta che si aprono sul grande giardino, e di un verde intenso –il colore più amato da Virginia, il colore dei prati e dei boschi- sono dipinti la libreria e gli infissi.
Virginia irradia dalla liquida luminosità della sua stanza, che ha una semplicità da cella monacale (Clarissa è il nome della signora Dalloway: un nome che riassume l’essenza della chiarità, della luce, e allude all’ordine monastico delle clarisse, fondato da santa Chiara). C’è un lettino bianco e stretto, un po’ ospedaliero un po’ monastico, che si allunga sotto la finestra, incastrato nell’angolo della scansia dei libri, e, accanto, un esile tavolinetto di vimini con appena lo spazio per un abat-jour; poco più in là un ombrellino di carta cinese, appoggiato all’ala del caminetto, e un tavolo piastrellato, prodotto, così come il lume da tavolino, dalla bottega-atelier Omega Workshop, che Vanessa fondò con Duncan Grant e Roger Fry per abbattere, secondo i principi modernisti, ogni steccato tra produzione artistica e produzione artigianale.
La stanza virginale di Virginia è tutta immersa in quell’ “alone luminoso” che, secondo la scrittrice, dovrebbe avvolgere e proteggere la vita dalla forza devastatrice del Tempo.
“Se scrivo” dichiara Virginia “è per raggiungere le cose centrali”, e queste sono “la vita e la morte”. Ma “il potere di fare le frasi” attingendo l’essenza delle cose è di così difficile cattura! E’ il ritmo, il problema. Trovare il tempo giusto della frase, il respiro che la fa vivere e che cattura la vita. Qualcosa che si alza e poi precipita. L’eterno e ritmato flusso della vita. Perchè “la vita è la mia questione”, “è la vita che conta”.
Forse è questo la vita: un’arte asemantica, indicibile come la musica. Ascoltiamo la sua voce ininterrotta nella piccola fontana della Merz, il sussurro che sale e che scende nel movimento eterno del Tempo.
Ma non fu quella la stanza di Virginia, la stanza dove riflettere e creare. Nel gennaio 1930 annotò nel suo diario: “Non riesco ancora a scrivere con naturalezza nella mia stanza nuova, perché il tavolo non è dell’altezza giusta e per scaldarmi le mani devo chinarmi. Bisogna che ogni cosa sia assolutamente conforme alle mie abitudini”.
Le fa eco il marito, Leonard: “Le case in cui viviamo hanno effetti profondi e permanenti su di noi: giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto condizionano la qualità, il colore, l’atmosfera, la pace della nostra vita”.
In quella stanzetta molto linda e ordinata Virginia finì soltanto per dormire.
Aveva troppo bisogno del disordine delle sue vecchie cose, che si ammucchiavano su un grande tavolo di legno, semplice e robusto. Un tavolo, ci dice sempre Leonard, che usava pochissimo per scrivere, ma su cui accumulava carte di ogni genere, buste strappate, bottiglie di inchiostro, vecchi bocchini per le sigarette, pennini spuntati o arrugginiti, fiammiferi usati e nuovi. Una confusione in cui ogni oggetto era pieno di significati personali, c’è da credere, anche se l’impressione che ne derivava era non soltanto disordinata, diceva Leonard, ma addirittura squallida.
Virginia non sedeva a questo tavolo per lavorare ai romanzi. Preferiva accoccolarsi su una poltrona molto bassa, che “sembrava soffrire di un prolasso all’utero”, dice sempre Leonard, tanto era sfondata. Si sistemava sulle ginocchia una tavola di compensato, su cui era incollato un calamaio, vi appoggiava sopra un grosso quaderno di carta bianca che si rilegava da sé con carta di colori vivaci. Tutti i suoi romanzi furono scritti così, a penna, al mattino. Al pomeriggio o il giorno dopo ricopiava a macchina, correggendo.
Nell’amata Monk’s House, la casa più amata di tutte (“Questo sarà per sempre il nostro indirizzo” affermò Virginia al momento dell’acquisto nel 1919 e così fu davvero), la scrittrice scelse come stanza per sé il capanno dismesso degli attrezzi in fondo al giardino, circondato di verde e di silenzio.
“Ma cogliere il punto di intersezione dell’atemporale col tempo è occupazione del santo”: così scriveva il suo grande amico, il poeta Thomas Eliot.
Sanctus: spazio separato, intangibile, sacro, sottratto ai profani, consacrato a rituali segreti: questo fu il capanno che Virginia chiamava “la mia romantica casetta”. La stanza piccola e raccolta, all’interno della grande stanza verde del rigoglioso giardino dove Leonard piantava ireos violetti sotto i meli.
Anche dal piccolo capanno, attraverso le sue finestrelle, si godeva di una bella vista sulla dolce campagna inglese. Virginia Woolf amava immensamente la natura, le lunghe passeggiate nei boschi e sulle colline in compagnia dei cani, i fiori che non dovevano mai mancare in casa. “L’amore della natura è una malattia congenita dell’anima inglese” diceva. Perciò le case che sceglieva (aveva un vero genio per le case) dovevano prima di tutto essere situate in posti incantevoli. Questa era la conditio sine qua non. Per il resto potevano essere scomode, antiquate, malandate, umide. Come Monk’s House a Rodmell, come Hogarth House a Richmond, dove i coniugi Woolf, che non avevano avuto figli (fu una scelta soprattutto di Leonard, consapevole della fragilità di Virginia) fondarono la loro piccolissima e fortunata casa editrice, che dalla residenza prese il nome di Hogarth Press. La loro figlia.

Virginia aveva bisogno di case che le somigliassero, e che fossero studio e rifugio. Si innamorava delle case come delle persone, per il loro carattere. Non contavano gli aspetti pratici, contava la personalità.

“Convento, ritiro religioso”: così la scrittrice definisce Monk’s House con il suo giardino confinante con una chiesetta sovrastata dal campanile a punta, forse suggestionata anche dal nome dell’edificio, legato alla leggenda che fosse stato anticamente un ritiro di monaci. “Niente acqua corrente,” racconta Leonard “niente gas né elettricità e un gabinetto alla turca nascosto con discrezione, ma senza troppo successo, in una macchia di laurocerasi nel mezzo del giardino”.
“Eppure” gli rispondeva Virginia, di ritorno da una visita nel lussuoso castello dell’amica Vita Sackville-West, “preferisco questa stanza; mi pare che qui vi sia più vita, più fatica; ma può darsi che dipenda dalla predilezione che ognuno ha per ciò che rispecchia il proprio carattere”.
La piccola stanza monacale di Virginia, di cui si è detto, isolata dal tumulto del mondo, affrancata da ogni relazione, in modo però più asettico che creativo, finì per essere una stanza per la malattia, per le emicranie che la tormentavano frequentemente, per i bui periodi di malinconia e depressione. Un luogo dove tentare di rigenerare dentro di sé le forze necessarie per resistere all’attacco che muove sovente la vita a un’anima ipersensibile, affinché questo non si traduca in ferita mortale.
Specialmente nei mesi in cui finiva uno dei suoi libri, e ne seguiva la pubblicazione, Virginia soffriva di una terribile tensione mentale e nervosa che alimentava, ed era a sua volta alimentata, da un’insonnia ribelle. Era un logorio mentale che la sua stessa mente produceva, eccitata da un’ipersensibilità patologica. Allora l’intensità della sua concentrazione sfiorava l’ossessione e l’esaltazione debordava in ideazione maniacale con spunti deliranti e allucinazioni.
A questa fase subentrava un lungo periodo di depressione durante il quale la malata rifiutava il cibo e le cure, coltivando idee di morte in uno stato di profonda prostrazione fisica e mentale.
Le crisi più gravi furono quattro: la prima quando a tredici anni perse la madre, poi quando morì il padre e lei tentò il suicidio buttandosi da una finestra, la terza con un altro tentativo di suicidio mediante i sonniferi, nei primi tempi del matrimonio, e l’ultima, a cinquananove, quando si annegò nel piccolo fiume che scorreva non lontano da Rodmell. Quello che oggi viene definito disturbo bipolare allora confluiva nella misteriosa e indefinita categoria nosologica della nevrastenia, per la quale i medici utilizzavano la cura della sovralimentazione e del riposo. In sostanza la paziente veniva isolata da qualsiasi stimolo intellettuale e sociale nella sua camera da letto e obbligata esclusivamente a mangiare e a dormire. Assolutamente proibiti i libri e la scrittura. Era una condizione di isolamento, ma non di solitudine: con benevola tirannia medici, infermiere e marito si alternavano al capezzale della malata per sorvegliarla e somministrarle questo tipo di cure.
Virginia diceva di quei momenti: “cado nel nulla”. E tuttavia, riemergendo da quegli episodi, ne parlava come di esperienze mistiche, perché con esse era penetrata in un altro mondo, muto, ineffabile. “E’ come scendere dentro un pozzo senza nulla che ci protegga dall’assalto della verità”, scrive nel suo diario alla data del 26 settembre 1926, “Non è con se stessi che si resta, ma con qualcosa nell’universo”.
Una stanza buia come un utero ci siamo lasciati alle spalle, una stanza rotonda come un utero troviamo ora. Nella stanza della follia possiamo rientrare come in un grembo materno, in contatto con le nostre emozioni più profonde e remote. Qui abbiamo trovato la nostra vera stanza mentale e forse quelle emozioni un giorno riusciremo ad esprimerle attraverso la scrittura e l’arte. A questo penso che alluda il tavolino vuoto, nella stanza forse solo apparentemente vuota. Il tavolino su cui scivolano puntini di luce sospesi, come se si aprisse uno spiraglio di illuminazione, per quanto frantumata e scissa, puntiforme e caotica.
Un raggio di luce che si fa strada dal cielo nella stanza dello sradicamento, dell’instabilità e della follia.
Elisabetta Chicco Vitzizza