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7.12.08

Concita De Gregorio vista da Cristiana Alicata

Il nostro posto” di Concita De Gregorio da l’Unità del 27 Agosto 2008!

Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad essere fiera.
Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare, chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e condivisi di una educazione comune.
Sono stata ragazza su banchi di scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri per capirne meglio e più piano la lezione.
Sono andata all’estero a studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che tu sia il Rettore dell’Università o il bidello della Facoltà fa lo stesso, la cura è dovuta e l’assistenza identica per tutti.
Sono stata una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana, nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.
Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega all’articolo 2, proprio all’inizio: l’esistenza (e il rispetto, e il valore, e l’amore) del prossimo.
Il “dovere inderogabile di solidarietà” che non è concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non erano mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio futuro sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo – investito in educazione e in conoscenza – ed è stato così. È stato facile, relativamente facile. È stato giusto. Per i nostri figli il futuro sarà peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco.
Chi può li manda altrove, li finanzia per l’espatrio, insegna loro a “farsi furbi”. Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere, la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent’anni. Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella presidenza di ente pubblico, di un ministero.
Mettiti in salvo tu da solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa loro, crepino.
Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica che ha trovato.
Quello che ora chiamiamo “berlusconismo” ne è stato il concime e ne è il frutto.
Un uomo con un potere immenso che ha promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni forgiato e avvilito il comune sentire all’accettazione di questa vergogna come fosse “normale”, anzi auspicabile: un modello vincente.
È un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un ricco che le sposi.
È un tempo triste quello in cui chi è andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori privati di uomini pubblici.
Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che ci è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata l’ultima di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più. Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia è un esilio in patria. Lamentarsi che “tanto, ormai” è un inganno e un rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli per Natale la playstation non è l’alternativa a una speranza. “Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza”, diceva l’uomo che ha fondato questo giornale.
Leggete, pensate, imparate, capite e la vita sarà vostra. Nelle vostre mani il destino. Sarete voi la giustizia. Ricominciamo da qui.
Prendiamo in mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci provato.
Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi è venuto prima di me il compito e la responsabilità di portare avanti un grande lavoro collettivo.
L’Unità è un pezzo della storia di questo Paese in cui tutti e ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro forza e la loro intelligenza a tenere ferma la barra del timone.
Ricevo in eredità - da ultimo da Furio Colombo ed Antonio Padellaro – il senso di un impegno e di un’impresa. Quando immagino quale potrebbe essere il prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e in sintonia con l’avvenire, penso a un giornale capace di parlare a tutti noi, a tutti voi di quel che anima le nostre vite, i nostri giorni: la scuola, l’università, la ricerca che genera sapere, l’impresa che genera lavoro. Il lavoro, il diritto ad averlo e a non morirne. La cura dell’ambiente e del mondo in cui viviamo, il modo in cui decidiamo di procurarci l’acqua e la luce nelle nostre case, le politiche capaci di farlo, il governo del territorio, le città e i paesi, lo sguardo oltreconfine sull’Europa e sul mondo, la solidarietà che vuol dire pensare a chi è venuto prima e a chi verrà dopo, a chi è arrivato da noi adesso e viene da un mondo più misero e peggiore, solidarietà fra generazioni, fra genti, fra uguali ma diversi. La garanzia della salute, del reddito, della prospettiva di una vita migliore. Credo che per raccontare la politica serva la cronaca e che la cronaca della nostra vita sia politica. Credo che abbiamo avuto a sufficienza retroscena per aver voglia di tornare a raccontare, meglio e più onestamente possibile, la scena. Credo che la sinistra, tutta la sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno di ritrovarsi sulle cose, di trovare e di dare un senso al suo progetto. Il senso, ecco. Ritrovare il senso di una direzione comune fondata su principi condivisi: la laicità, i diritti, le libertà, la sicurezza, la condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla vita, sulla realtà. C’è già tutto quello che serve. Basterebbe rinominarlo, metterlo insieme, capirsi. Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non voltarsi di spalle. È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo farlo, dobbiamo. Questo giornale è il posto. Indicare sentieri e non solo autostrade, altri modi, altri mondi possibili. Ci vorrà tempo. Cominciamo oggi un lavoro che fra qualche settimana porterà nelle vostre case un quotidiano nuovo anche nella forma. Sarà un giornale diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli anni, a ciascuno di noi. L’identità, è questo il tema. L’identità del giornale sarà nelle sue inchieste, nelle sue scelte, nel lavoro di ricerca e di approfondimento che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che ci suggeriscano dove altro sia possibile andare, invece, e come farlo. Sarà certo, lo vorrei, un giornale normale niente affatto nel senso dispregiativo, e per me incomprensibile, che molti danno a questo attributo: sarà un normale giornale di militanza, di battaglia, di opposizione a tutto quel che non ci piace e non ci serve. Aperto a chi ha da dire, a tutti quelli che non hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione, il loro impegno. Non è qualcosa, come chiunque capisce, che si possa fare in solitudine.
C’è bisogno di voi. Di tutti, uno per uno.
Non ci si può tirare indietro adesso, non si deve.
È questa la nostra storia, questo è il nostro posto!

Leggetevi da Articolo 21, l’intervista rilasciata ad Alfredo Corradino!
Una frase, la dice tutta su Concita De Gregorio!
Io non sono affatto morbida né come persona né come giornalista…Come alcuni di voi sapranno dal 22 agosto alla guida de L’Unità è stata da poco nominata Concita De Gregorio, penna di rilievo di Repubblica, nonché donna dotata di una sensibilità non comune. Qualche dettaglio riassuntivo lo trovate qui.

Credo di aver saputo di questo cambio della guardia, qualche mese fa, non mi ricordo più nemmeno da chi e di avere pensato che sarebbe stato troppo bello per essere vero. La prima direttrice donna di un grande giornale, oltretutto quello di cui il fratello di mio nonno (tal Mario Alicata, quello della polemica con Elio Vittorini) è stato direttore prima di morire.

Non compro l’Unità da un’infinità di tempo, non perchè non mi piaccia come giornale, ma perchè mi sembra da anni (dalla gestione Veltroni, in effetti) vetusto e concentrato sulle beghe del partito, prima PDS, poi DS ora PD, nonchè di formato scomodissimo, tanto che se fossi Concita la prima cosa che farei sarebbe importare il formato di Repubblica e rendere l’Unità sfogliabile anche in spiaggia e non solo in sezione. Sarebbe un tocco radical-chic che sarebbe apprezzato anche dalla base (è una battuta al miele, non al vetriolo).

So bene anche che è sull’Unità che avvengono molti dibattiti interni al PD e come iscritta al PD dovrei leggermelo fino all’ultima riga ogni giorno. Il fatto è che riesco ancora a fare quell’enorme sforzo di leggere un giornale come se fossi un semplice cittadino e mi annoio a leggere pagine e pagine di polemiche: le correnti sì, le correnti no, Red, la Cosa Bianca, quell’altra a Pois, ecc. Vogliamo parlare sull’Unità dei problemi del Paese o dell’unghia incarnita di quel consigliere comunale che non si capisce bene da dove viene…che dice giustamente il mio amico Paolo Masini, il prossimo che nel PD mi chiede da dove vengo e non cosa voglio fare lo mando a fare in culo (lui non usa questo linguaggio, io sì).

C’è qualcuno che legge ancora l’Unità senza essere un fervente militante ex pds, ex ds, actually PD?

Dubito.

C’è ancora qualche giovane studente che cammina con in tasca l’Unità, come faceva Guccini e come facevamo io e Silvia quando giravamo per Roma?

Dubito.

Non ritengo nemmeno che la colpa sia di Padellaro o di Colombo, gli ultimi due direttori, anche se qualcosa da dire sulla guerra Santa a Berlusconi ce l’avrei…a cosa serve dico, se tanto a leggere quel giornale eravamo solo noi?

Prima diventa il giornale molti, soprattutto vari, poi usa il tuo status di giornale per dire la verità, o per lo meno la tua verità. Altrimenti è come gridare in sezione, e non farsi sentire nemmeno dagli abitanti del palazzo di fronte. (Inutilità?)

E’ innegabile che l’Unità (che poi è il problema dello stesso PD) debba finire di essere il bollettino del partito per il partito e debba diventare un giornale che parla a quel pezzo di paese che il partito vuole rappresentare. L’Unità ha lo stesso problema degli incontri tra dirigenti del PD: si parla del partito e non si parla del Paese, in una specie di spirale diabolico-ideologica, per cui alla maniera del vecchio PCI, prima il partito, poi donne e bambini.

In questo momento, la scelta del CDA, caduta su Concita, sembra andare proprio in quella direzione. Una persona che viene da fuori, che ha fatto esperienza in un grande giornale democratico (con alcuni scivoloni degli ultimi tempi, ma glielo possiamo perdonare) e repubblicano, un giornale che ha avuto in questi anni, o ha tentato di avere, uno sguardo ampio e liberale, plurale.

Una persona che ha lo sguardo sgombro dalle beghe interne e sul mondo. Lucida.

L’utilizzo dei mezzi d’informazione è qualcosa che dobbiamo imparare dal nostro avversario. Dal nostro avversario dobbiamo imparare a parlare al Paese, non solo agli iscritti al PD e penso che una persona come Concita De Gregorio possa farlo. Sarà un processo difficilissimo e Concita incontrerà certamente tante resistenze interne e ostacoli vetusti di matrice ideologica. Dovrà, oltre che dare una linea editoriale insieme all’editore, costruire fiducia internamente e gestire il cuore antico e pulsante di un giornale che ha quasi un secolo.

No, non vi dirò che siccome è donna saprà farlo meglio. Lo penso, ma non ve lo dico. So che è così, ma non posso dirvelo.

Concita dovrà, in poche parole fare il manager: leadership e vision.

Scusate se la butto così, sui termini aziendali, ma è così.

Non capisco Travaglio perchè si lamenta e perchè non capisce la questione sulla multimedialità. A parte che da che mondo e mondo i cambi della guardia nelle aziende o ovunque, sono accompagnati da comunicati stampa di evidente circostanza. E soprattutto è normale fare un’azione, anche di immagine, come quella di mettere una penna come Concita a fare il direttore, in un momento in cui le vendite non vanno benissimo. Davvero non capisco perchè è riuscito a fare polemica in questa occasione, rischiando di inficiare polemiche e denuncie ben più importanti di cui si fa portatore.

A Concita De Gregorio i miei migliori auguri. Sto pensando addirittura di fare l’abbonamento.

p.s. pensate che le portai il mio libro e lei non l’ha mai recensito. Eppure le ho tenuto il muso una settimana (nel senso che non volevo leggerla più) e poi ho ricominciato.

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UNA MADRE LO SA DI CONCITA DE GREGORIO
In sintesi
La storia di Brooke Shields, una delle donne più belle del mondo, che partorisce a 38 anni la piccola Rowan e non smette di piangere dal primo istante in cui gliela mettono in braccio e scivola in una tremenda depressione da cui si riprenderà solo molti mesi dopo, e quella di Valentina Vezzali, il "cobra", che dopo appena diciotto giorni dalla nascita del figlio Pietro riprende gli incontri di scherma e le bastano tre mesi di allenamento per vincere i campionati del mondo. La storia delle madri di Plaza de Mayo, a cui la dittatura argentina ha rubato i figli, capaci di un amore assoluto per le proprie creature scomparse, perché l'amore materno perfetto è solo quello per chi non c'è più, e quella di Mercè Anglada, ostetrica di 44 anni, che per aver dedicato l'intera vita a far nascere i figli degli altri non si è mai sposata e non ne ha mai avuti di propri. Storie di madri e di maternità, storie di amore e di paura, storie di gioia e di terribili depressioni. Concita De Gregorio compie un viaggio, attraverso venti racconti di maternità, in una realtà circondata da moltissimi luoghi comuni, per cercare di dare voce a una realtà silenziosa: la fatica di essere madri in un mondo in cui per le madri non c'è posto.






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CRISTIANA ALICATA
QUATTRO


Insomma mia sorella e Martina se ne stavano faccia a faccia a studiarsi negli occhi, affondate nel divano, mia sorella quasi invisibile. Fu la prima volta che mi accorsi di quanto si assomigliavano. Non avevano una sola goccia di sangue uguale nelle vene, ma si erano assorbite così bene che nessuno avrebbe mai potuto dire che non erano madre e figlia.

Ventunesimo secolo. In un luogo imprecisato a nord di Roma. Campagna. Un gruppo di case di pietra le cui porte sono dipinte con i colori dell'arcobaleno. Una vigna e una antica quercia ferita da un fulmine su cui nessuno ha mai inciso delle iniziali. Francesca e Martina: due donne, una storia d'amore che comincia all'università e sarà la storia di una famiglia. A raccontare è Andrea, il figlio. Tutto intorno Chiara, sorella di Andrea, che sembra fragile e invece no, una tribù di amici, il mondo curioso e confuso, e poi Elena, figlia di conoscenti, che crescendo scardina improvvisamente un equilibrio che si pensava intoccabile. La ricerca spontanea di un lessico familiare si trasforma in una favola-romanzo in cui Francesca e Martina scopriranno di essere “solo” due genitore alle prese con le domande buffe di due bambini prima e con le contestazioni violente di due adolescenti dopo. Ironico, tragico e commovente, “Quattro” vi sembrerà così naturale che vi aspetterete di incontrare dietro l'angolo Francesca, Martina, Andrea e Chiara. E non è detto che questo non accada.